La Delegazione di Roma e Città del Vaticano del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio ha pubblicato sul proprio canale YouTube il podcast con la Meditazione per la “veglia d’armi” del Pontificale di San Giorgio, a cura dal Referente per la Formazione, Prof. Enzo Cantarano, Cavaliere di Merito con Placca d’Argento. Nella Meditazione si riflette sulle caratteristiche del Cavaliere Cristiano, dal glorioso Cavaliere-martire San Giorgio di Lydda al misericordioso Cavaliere-vescovo San Martino di Tour.
Podcast 19 aprile 2024 – Meditazione per la “veglia d’armi” del Pontificale di San Giorgio [QUI]
La parabola del Cavaliere Cristiano Da Giorgio di Lydda o il rifiuto del potere a Martino di Tours o il potere come servizio
Fin dai primi secoli del Cristianesimo sorse e si affermò, nonostante qualche voce contraria di coloro che temevano il rischio di fomentare fenomeni di idolatria, il culto, o dulia, dei santi. Il Cristianesimo delle origini era diffuso, a Roma, come nelle province del suo vasto Impero, soprattutto tra le classi più umili alle quali sembrava più specificamente dedicato il Lieto Annuncio, la Buona Novella. Vi erano, tuttavia, parecchie rilevanti eccezioni di singoli e di famiglie facoltose, anche di classe senatoria ed equestre, e la nuova fede era ampiamente diffusa tra i militari, gregari ed ufficiali. Il Potere imperiale e sacerdotale non si rese subito conto dell’impatto travolgente del Messaggio Cristiano sulle folle dei sudditi e forse iniziò a capirne tardi, dapprima vagamente e poi sempre più coscientemente, l’enorme portata sociale ed antropologica soprattutto inerente la sottomissione all’autorità imperiale intesa come potere assoluto e divino. La reazione fu drammatica e sanguinosa e si configurò come attiva persecuzione dei christifideles che furono condannati e martirizzati spesso senza alcun rispetto per le pur ferree tradizioni giurisprudenziali romane. Quando iniziarono le persecuzioni, esse interessarono trasversalmente tutte le classi sociali dal momento che il crimine imputato ai Cristiani era in sostanza quello di lesa maestà cioè di attentato contro la suprema dignità di uno Stato, lato sensu, teocratico in quanto incarnato nella persona stessa dell’imperatore-dio. E fu la “Era dei Martiri”.
Inizialmente, i magistrati locali ed i rappresentanti del potere centrale non ricercavano attivamente i Cristiani per cui le comunità continuarono a crescere quasi indisturbate, trovando anzi nel culto dei martiri nuovo vigore. Gli Imperatori Decio, Valeriano e Diocleziano, spinti anche da considerazioni politiche, ordinarono persecuzioni più attive e severe che non riuscirono, tuttavia, a sradicare il nuovo culto.
Nel 311 l’Imperatore Galerio emanò l’Editto di Serdica che concedeva ai Cristiani il perdono, poi confermato da Costantino I, che accordò al Cristianesimo lo status di religio licita con l’Editto di Milano nel 313. Gli ultimi strascichi delle persecuzioni si sovrapposero alle prime lotte contro gli eretici. Dopo pochi decenni sarebbero iniziate le persecuzioni dei pagani. I primi Santi, riconosciuti tali praticamente dal “sensus fidei” del popolo cristiano, prima ancora che da un pronunciamento della Chiesa in tal senso, furono i martiri, i testimoni della fede davanti alla suprema potestà imperiale romana. Furono antesignani del nuovo modo di vedere il potere, non più come prevaricazione, oppressione, sottomissione, ma, come afferma con l’autorità e la radicalità che gli è propria Gesù, come servizio alla verità della fede, della speranza e, soprattutto, della carità!
Infatti, nei primi secoli di vita delle comunità cristiane, non si parla propriamente di santi, ma di martiri: la venerazione dei defunti si focalizza soprattutto su quelle persone che, pur di non rinnegare il Signore e il suo messaggio salvifico, preferirono immolare la propria vita come testimonianza di fede. Ovviamente, non esistevano questioni formali da assolvere per venerare un martire: il martirio era un fatto di dominio pubblico, confermato dalle autorità romane competenti che poi eseguivano la pena capitale.
Nascono in questo periodo i martirologi, ovvero cataloghi e raccolte dove venivano inseriti i fedeli secondo nome, giorno della messa a morte e luogo di sepoltura, probabilmente per onorarli presso il sepolcro nella ricorrenza del giorno del loro supremo sacrificio. Ovviamente il martirio di uomini o donne di “bassa” condizione o di schiavi non aveva la stessa rilevanza e diffusione pubblica di quello di personaggi “di rango” come soldati, funzionari militari o nobili. E la fama dei martiri, il culto delle loro reliquie, dei luoghi delle loro sepolture, delle narrazioni agiografiche che cominciarono presto a diffondersi soprattutto negli strati più poveri e, quindi, bisognosi di patronato celeste, contribuirono a incrementare sempre di più l’aura di sacralità attorno a questi personaggi santi.
Comunque, ai corpi dei martiri si cominciò molto presto a tributare una particolare venerazione, soprattutto nei siti della loro esecuzione o della loro sepoltura, spesso trasformati in luoghi di culto. Seguendo il sistema romano del patronatus, i christifideles si ritenevano liberati dalla schiavitù della colpa mediante la testimonianza del martire cui si ritenevano vincolati legalmente come i liberti al loro patronus. I liberti emancipati in genere avevano comprato la libertà mediante pecunia guadagnata lavorando nell’ambito di una associazione di mestiere, che riconosceva una divinità come nume tutelare alla quale si riferivano come un patronus celeste. Probabilmente, anche i Cristiani erano riuniti in “collegi” di arti e mestieri e scelsero illustri patroni tra i martiri o i santi che avevano esercitato in vita la loro professione. Questo sicuramente accadde per i militari e portò alla rapida diffusione ubiquitaria della nostra fede dato che Roma aveva presidi in armi in ogni località dell’Impero. E i testimoni militari cristiani dovettero avere maggiore impatto sui loro commilitoni, e non solo su di loro, rispetto a quelli che cercavano di propagare la religione mitraica. Quest’ultima, infatti, venne surclassata ed, alla fine, abbandonata, nonostante gli iniziali successi dovuti anche alla lenta e progressiva decadenza del politeismo imperiale.
Dopo questa necessaria introduzione veniamo ai due personaggi cui è dedicato il nostro lavoro: Giorgio di Lydda e Martino di Tours.
Il culto del santo cavaliere e martire Giorgio conobbe rapidamente una enorme diffusione e tutt’ora la sua celeste protezione è invocata in tutta la Terra. Forse nessun santo sin dall’antichità ha riscosso tanta venerazione popolare, sia in Occidente sia in Oriente. Vari Ordini cavallereschi portano il suo nome e i suoi simboli, fra i più conosciuti: l’Ordine di San Giorgio, detto “della Giarrettiera”; l’Ordine Teutonico; l’Ordine militare di Calatrava d’Aragona; il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, ecc.
È considerato il patrono dei cavalieri, degli armaioli, dei soldati, degli scouts, degli schermitori, della cavalleria, degli arcieri, dei sellai; inoltre è invocato contro la peste, la lebbra e la sifilide, i serpenti velenosi, le malattie della testa, e, nei paesi alle pendici del Vesuvio, contro le eruzioni del vulcano.
Il suo nome deriva dal greco “gheorghiós”, cioè agricoltore, e fu portato nei secoli da persone celebri in tutti i campi. La Chiesa Orientale lo chiama il “megalomartire” (il grande martire).
Detto tutto questo, si può capire come il suo culto così diffuso in tutti i secoli, abbia di fatto superato le perplessità sorte in seno alla Chiesa, che in mancanza di notizie certe e comprovate sulla sua vita, nel 1969 lo declassò nella liturgia ad una memoria facoltativa. I fedeli di ogni luogo dove è venerato, hanno continuato comunque a tributargli la loro devozione millenaria.
La sua figura è avvolta nel mistero. Da secoli gli studiosi cercano di stabilire chi veramente egli fosse, quando e dove sia vissuto. Le poche notizie pervenute sono nella Passio Georgii, che il Decretum Gelasianum del 496 classifica già tra le opere apocrife (supposte, non autentiche, contraffatte) ed in opere letterarie successive, come De situ Terrae Sanctae di Teodoro Perigeta del 530 ca., il quale attesta che a Lydda (Diospoli) in Palestina, oggi Lod presso Tel Aviv in Israele, vi era una basilica costantiniana, sorta sulla tomba di San Giorgio e compagni, martirizzati verosimilmente nel 303, durante la persecuzione di Diocleziano. Detta basilica era già meta di pellegrini prima delle Crociate, fino a quando il Sultano Saladino (1138-1193) la fece abbattere. La notizia viene confermata anche da Antonino da Piacenza (570 ca.) e da Adamnano (670 ca) e da un’epigrafe greca, rinvenuta ad Eraclea di Betania datata al 368, che parla della “casa o chiesa dei santi e trionfanti martiri Giorgio e compagni”.
I documenti successivi, che sono nuove elaborazioni della Passio leggendaria sopra citata, offrono notizie sul culto, ma sotto l’aspetto agiografico non fanno altro che complicare maggiormente la leggenda, che solo tardivamente si integra dell’episodio del drago e della fanciulla salvata da San Giorgio. La Passio dal greco venne tradotta in latino, copto, armeno, etiopico, arabo, ad uso delle liturgie riservate ai santi. Da essa apprendiamo, come già detto senza certezze, che Giorgio era nato in Cappadocia ed era figlio di Geronzio persiano e Policronia cappadoce, che lo educarono cristianamente. Da adulto divenne addirittura tribuno militare del proconsole romano Daciano, o, per alcuni, dell’armata dell’Imperatore Diocleziano (243-313), il quale, con l’Editto del 303, prese a perseguitare i Cristiani in tutto l’impero. Il tribuno Giorgio di Cappadocia, dopo essere stato arrestato per aver strappato l’Editto, confessò davanti al tribunale dei persecutori la sua fede in Cristo. Fu invitato ad abiurare e al suo rifiuto, come da prassi in quei tempi, fu sottoposto a spettacolari supplizi, poi gettato in carcere e, infine, ucciso. Il culto per il martire iniziò quasi subito, come dimostrano i resti archeologici della basilica eretta qualche anno dopo la morte (303?) sulla sua tomba nel luogo del martirio (Lydda).
La leggenda del drago comparve molti secoli dopo nel Medioevo, quando il trovatore Wace (1170 ca.) e soprattutto Jacopo da Varagine († 1293) nella Legenda Aurea, fissano la sua figura come cavaliere eroico, che tanto influenzerà l’ispirazione figurativa degli artisti successivi e la fantasia popolare. Essa narra che nella città di Silene in Libia, vi era una grande palude nella quale si nascondeva un drago che divorava i figli degli abitanti della regione che glieli offrivano per placarlo estraendone i nomi a sorte. Il giorno in cui sarebbe toccato alla principessa figlia del re del luogo, passò di lì il giovane cavaliere Giorgio che salvò da morte la fanciulla ed uccise, nel nome di Dio, il drago diabolico. Allora il re e la popolazione si convertirono.
La leggenda era sorta al tempo delle Crociate, influenzata probabilmente da una falsa interpretazione di un’immagine dell’imperatore “cristiano“ Costantino, rinvenuta a Bisanzio, in cui il sovrano schiacciava col piede un drago, simbolo del “nemico del genere umano”. I Crociati accelerarono questa trasformazione del martire in un santo guerriero, volendo simboleggiare l’uccisione del drago come la sconfitta dell’Islam; e con Riccardo Cuor di Leone (1157-1199) San Giorgio venne invocato come protettore da tutti i combattenti.
Durante il Medioevo la figura di San Giorgio divenne oggetto di una letteratura epica che gareggiava con i cicli bretone e carolingio. Nei Paesi slavi assunse la funzione addirittura “pagana” di sconfiggere le tenebre dell’inverno, simboleggiate dal drago e quindi di favorire la crescita della vegetazione in primavera; una delle tante metamorfosi leggendarie di questo megalomartire che è onorato anche dai Musulmani, che gli diedero l’appellativo di “profeta”.
La fama, gli onori ed il culto di San Giorgio in Oriente furono tributati, non molto tempo dopo, ad un altro santo cavaliere, Martino di Tours (Sabaria, 316, circa – Candes, 8 novembre 397) in Occidente. Originario della Pannonia, nell’odierna Ungheria, esercitò il suo ministero, dapprima come militare e, poi, come vescovo, nella Gallia del tardo Impero romano.
Fu tra i primi santi non martiri proclamati dalla Chiesa Cattolica Romana, ed è venerato anche da quella Ortodossa e da quella Copta. Dopo l’“era dei martiri”, un cambio radicale si verificò alla fine delle persecuzioni, prima con la Pax constantiniana del 313, poi con l’Editto di Tessalonica del 380. La situazione sociopolitica porta ad aggiungere al culto dei martiri, quello dei confessori della fede. Sia i martiri sia i confessori vengono venerati con moto spontaneo collettivo, senza iniziative o approvazioni di natura ecclesiastica. Non v’è traccia di formalizzazioni processuali, sia per la poco sviluppata organizzazione della Chiesa, sia per la mancanza effettiva della necessità di accertamenti, dato che i segni del martirio o di altre testimonianze di fede così marcate sono evidenti e di pubblico dominio.
La memoria liturgica di San Martino si celebra l’11 novembre, giorno dei suoi funerali avvenuti nell’odierna Tours. È considerato uno dei grandi santi della Gallia insieme a Dionigi, Liborio, Privato, Saturnino, Marziale, Ferreolo e Giuliano.
Non è a tutti noto che Martino è celebrato anche come il fondatore del monachesimo occidentale. Nella seconda metà del IV secolo istituì infatti a Ligugé, nei pressi di Poitiers, in Francia, il primo monastero d’Occidente, e in seguito fondò quello di Marmoutier (Maius Monasterium) verso il 375 non lontano da Tours. Il primo monastero fondato da San Benedetto da Norcia, secondo la tradizione, risalirebbe al 520, cioè circa un secolo e mezzo dopo quelli istituiti da San Martino.
Nacque nel 316 a Sabaria Sicca, l’odierna Szombathly in Ungheria, in un avamposto dell’Impero Romano alle frontiere con la Pannonia. Il padre, Tribunus Militum della Legione ivi stanziata, gli diede il nome di Martino in onore di Marte, il dio della guerra. Nel 331 un Editto imperiale obbligò tutti i figli di veterani ad arruolarsi nell’esercito romano e Martino, come figlio di un alto ufficiale, fu reclutato nelle Scholae imperiali, corpo scelto di 5.000 unità perfettamente equipaggiate: disponeva quindi di un cavallo e di uno schiavo. Fu inviato in Gallia, presso la città di Amiens, nei pressi del confine, e lì passò la maggior parte della sua vita da soldato. Faceva parte, all’interno della Guardia imperiale, di truppe non combattenti che garantivano l’ordine pubblico, la protezione della posta imperiale, il trasferimento dei prigionieri o la sicurezza di personaggi importanti. Durante uno di questi servizi avvenne l’episodio che gli cambiò la vita (e che ancora oggi è quello più ricordato e più usato dall’iconografia). Nel rigido inverno del 335 Martino incontrò sulla strada un mendicante seminudo. Vedendolo sofferente, tagliò in due il suo grande mantello militare, l’ampia clamide bianca della Guardia imperiale, e lo condivise con il mendicante. La notte seguente vide in sogno Gesù rivestito della metà del suo mantello militare donata al povero il giorno prima. Quando Martino si risvegliò, il suo mantello era integro. Venne conservato come reliquia entrando a far parte della collezione di reliquie dei Re Merovingi dei Franchi e in seguito dei Re di Francia. Il termine latino medievale per “mantello corto”, cappella, venne esteso alle persone incaricate di conservare il mantello di San Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all’oratorio reale, che non era una chiesa, chiamato appunto, cappella.
Il sogno ebbe un tale impatto su Martino, che egli, già catecumeno, venne battezzato la Pasqua seguente e divenne Cristiano. Martino rimase ufficiale dell’esercito per una ventina d’anni, raggiungendo il grado di ufficiale nelle Alae scholares (un corpo scelto). Giunto all’età di circa quarant’anni, decise di lasciare l’esercito, secondo Sulpicio Severo dopo un acceso confronto con Giuliano, il Cesare delle Gallie, in seguito noto come l’Apostata e iniziò una nuova vita. S’impegnò nella lotta contro l’eresia ariana, condannata dal I Concilio di Nicea (325), e venne per questo anche perseguitato, frustato e cacciato, prima dalla Francia, poi da Milano, dove aveva cercato rifugio e dove erano stati eletti vescovi ariani. Tornato quindi in Francia, a Poitiers, dopo il rientro del vescovo Cattolico, divenne monaco e venne presto seguito da nuovi compagni, fondando uno dei primi monasteri d’Occidente, a Ligugé, sotto la protezione del Vescovo Ilario.
Nel 371 i cittadini di Tours lo vollero loro vescovo, anche se alcuni chierici avanzarono resistenze per il suo aspetto trasandato e le origini plebee. Come vescovo, Martino continuò ad abitare nella sua semplice dimora da monaco e proseguì la sua missione di propagatore della fede, creando nel territorio molte nuove piccole comunità di monaci. Avviò un’energica lotta contro l’eresia ariana e il paganesimo rurale dimostrando comunque compassione e misericordia verso chiunque. La sua fama di taumaturgo ebbe ampia diffusione nella comunità Cristiana dove veniva visto come un uomo dotato di carità, giustizia e sobrietà. Uomo di preghiera e di azione, Martino percorreva personalmente i distretti abitati dai servi agricoltori, dedicando particolare attenzione all’evangelizzazione delle campagne.
Martino morì l’8 novembre 397 a Candes-Saint-Martin, dove si era recato per mettere pace tra il clero locale. La sua morte, avvenuta in fama di santità anche grazie ai miracoli attribuitigli, segnò l’inizio di un culto nel quale la generosità del cavaliere, la rinunzia ascetica e l’attività missionaria erano associate. In Europa sono state dedicate al santo moltissime chiese, fin dal pieno Medioevo e la basilica a lui dedicata in Tours, l’edificio religioso francese più grande di quei tempi, fu tradizionale meta di grandiosi pellegrinaggi. Alla ricorrenza del santo sono collegate tutt’ora, nonostante l’avanzare della laicizzazione, moltissime feste popolari in tutta Europa soprattutto in ambiente agrario ed in Italia alla così detta “estate di San Martino” all’inizio di novembre.
Il nostro excursus sui due santi Cavalieri ha voluto quasi mettere a confronto queste due illustri figure di Cristiani esemplari, anche per mostrare come il potere e la misericordia possono essere declinati in modi diversi e apparentemente contrastanti, se ci fermiamo alla logica di questo mondo e di questo tempo, ma, opportunamente valutati alla luce salvifica e sempre nuova del Lieto Annuncio di Cristo Gesù, anche apparenti enantiomorfismi o reali aporie o contrapposizioni insanabili possono essere vissuti in modo costruttivo e non distruttivo, in una sorta di “reductio ad unum” sulla quale tanto insiste Papa Francesco nelle sue Encicliche e Lettere e che la logica delle Beatitudini bene incarna e ci rimanda immutata nel tempo e nello spazio.
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